PALMA e COPPOLA

25.11.2025

In arrivo a dicembre 2025.


PALMA E COPPOLA

Di quel che accadde a Monte San Giuliano in una quieta domenica del luglio 1715



Era il 7 luglio dell'anno 1715, domenica; durante la celebrazione eucaristica nella chiesa de La Matrice di Monte San Giuliano, come a quel tempo si chiamava Erice, avvenne un ignominioso fatto di sangue. Il pro-castellano Clemente Palma e il giurato Alberto Coppola, ovvero chi reggeva l'amministrazione e chi la giustizia di quella che era al tempo una città reale, vennero aggrediti e feriti. Questo è un accadimento storicamente provato; è, come si usa dire, un fatto.

In alcuni documenti è riportato che l'aggressione avvenne ad opera di due figuri con armi da fuoco; in altri, da quattro persone che colpirono i già menzionati con pietre appuntite. Di certo, di sangue del Palma e del Coppola ne scorse fino a sporcare il sacro pavimento della chiesa così tanto, e in maniera così cruenta, che l'allora vescovo Castelli sospese le funzioni parrocchiali a La Matrice e le trasferì ad altra chiesa.

Il fatto, evidentemente, aveva creato grande scandalo e imbarazzo negli ambienti ecclesiastici e non solo.

Parrebbe che il Palma e il Coppola guarirono dalle ferite riportate e che gli esecutori dell'aggressione furono arrestati e condannati a morte. Parrebbe, sottolineo.

Ben poco d'altro avevo rinvenuto quando cominciai a incuriosirmi a quello scandalo di cui avevo letto durante una mia ricerca sui principali monumenti di Erice. Inizialmente non riuscii a capire se fosse stata una sorta di, come si direbbe oggi, attentato terroristico o un più banale regolamento di conti nell'ambito del malaffare locale. Però, a pensarci bene, il regolamento di conti malavitoso non riusciva a convincermi: com'era plausibile un atto del genere di domenica, durante la funzione eucaristica, in una chiesa probabilmente gremita di fedeli e in una città molto pia com'era allora Monte San Giuliano. Le mafie, almeno a quel tempo, non amavano agire in modo così esposto, così teatrale e, soprattutto, non dentro una casa del Signore.

E allora, quale fu il movente di quella aggressione? Chi furono gli aggressori, quali i loro nomi e cognomi? E perché il fatto avvenne in quel nobile, maestoso, bellissimo duomo di quella che, al tempo, era una città regale e devotissima?

Suvvia, un crimine, chiamiamolo classico, poteva essere effettuato in ogni altro luogo, sicuramente con molti meno testimoni e difficoltà logistiche!

E invece, quel fattaccio venne perpetrato proprio dentro al duomo e durante una messa; a rifletterci ancora, come uno dei moderni attentati nelle Chiese ortodosse o cristiane in Africa, Asia e Medio Oriente. Terroristi musulmani, allora? Ma erano trascorsi più di cinquecento anni da quando erano stati scacciati dalla Sicilia. Vendetta ebraica per la diaspora di trecento anni prima? Che ipotesi azzardate, non vi sembra? Magari la pista politica, un attentato di matrice anarchica, atea, ma Bakunin era ancora lì da venire.

Torniamo a Clemente Palma e Alberto Coppola; dopo essere guariti, come riportarono le cronache del tempo, che fine fecero? Nulla più si scrisse di loro.

E gli autori dell'aggressione davvero furono arrestati e condannati a morte? Quando, come e dove avvenne l'esecuzione? Non ci sono evidenze dei loro nomi né dell'esecuzione, il fatto è citato ma non documentato.

Allora si trattava di innominabili, magari per censo o per motivi religiosi, oppure l'opera di eretici. Su quest'ultimo punto mi fu subito facile verificare che in quel periodo non vennero eseguite pene di morte ordinate dalla Santa Inquisizione in Sicilia.

Non avevo trovato risposte alle domande che mi ero posto; internet stavolta non mi era stata d'aiuto e nemmeno le biblioteche da me visitate a Trapani e a Erice. Così, inizialmente, lasciai perdere.

Col tempo però, la mia curiosità per quell'accadimento, anziché placarsi, aumentò decisamente; forse alimentata dai molti misteri e leggende di cui ho letto e che si raccontano su questo luogo magico e un po' misterioso che è Monte San Giuliano, oggi conosciuta come Erice, in cui avevo deciso di acquistare una modesta dimora.

Mi decisi a iniziare, quindi, una vera e propria indagine storica nella quale mi sono immerso per oltre un anno e che ha ispirato questo romanzo.

Bene, se avete deciso di andare avanti nella lettura credo sia venuto il momento di meglio comprendere il contesto storico dell'accadimento; va infatti tenuto presente che questo fatto di sangue, a danno di due personaggi assai in vista e di assoluto rilievo della società civile, avvenne in una fase particolare del Regno di Sicilia.

Nel 1713, a seguito del trattato di Utrecht, la corona asburgica di Spagna fu costretta, tra l'altro, a cedere la Sicilia ai Savoia.

Sinceramente, di questo periodo non avevo avuto conoscenza scolastica. Ma come, casa Savoia aveva regnato in Sicilia ben prima dello sbarco di Garibaldi? Credo che molti di voi, come me, non ne avessero contezza a meno che non vi siate imbattuti e abbiate letto, con un'attenzione maggiore della mia, la monumentale produzione letteraria di Luigi Natoli.

Ma torniamo al contesto storico. Precedentemente al trattato di Utrecht, che aveva sancito e disposto le conseguenze della sconfitta degli Spagnoli e dei loro alleati francesi, anche la Sicilia aveva sofferto per le vicende della guerra. Filippo V vi aveva mandato una disordinata armata di spagnoli, francesi e irlandesi, tutti poveracci, affamati e malvestiti, sbarcati in Sicilia con l'unica intenzione di sgraffignare quanto si poteva, sbruffoneggiare e abboffarsi il più che si potesse fare. E così erano nate sommosse spontanee e ribellioni, sfociate nei tumulti del 1708, repressi dagli Spagnoli a schioppettate e forche per parecchi rivoltosi. La Sicilia, inoltre, era stata afflitta da carestie che avevano acuito il disagio sociale dei popolani e l'insoddisfazione dei feudatari. Ci fu l'ulteriore diffusione del brigantaggio nelle campagne e il sorgere di sette più o meno segrete nelle grandi città, Palermo e Messina su tutte, a veicolare il bisogno di giustizia e qualche vagito d'indipendenza e autodeterminazione.

Il senso comune era che il pesce puzzasse dalla testa e la dipartita degli Spagnoli, imposta con il Trattato di Utrecht, aveva inizialmente dato speranza ai Siciliani e alla sua nobiltà di rinverdire antichi fasti e tornare a essere regno con un re italico. Vittorio Amedeo di Savoia, che veniva a farsi incoronare nell'antico e prestigioso duomo di Palermo, cosa che non avveniva da quasi due secoli, sembrò quindi la risposta agognata da nobili, feudatari ma anche dai popolani più abbienti, i commercianti, e dalla nascente borghesia urbana.

Con l'arrivo del Savoia, solo la Chiesa Romana aveva visto profilarsi una minaccia; il rischio di pretese di autonomia ecclesiastica della Sicilia e il mantenimento dell'Inquisizione sotto l'egida spagnola rafforzò, anziché affievolire, il livore anti Savoia di Roma.

Ma l'idillio della nobiltà siciliana per Casa Savoia durò poco e la prima entusiastica accoglienza di Vittorio Amedeo si tramutò presto se non in delusione in palese discordanza. La nobiltà palermitana, in particolare, amante degli sfarzi, delle feste e far gara di sfoggio dei propri lussi e delle proprie prerogative, venne a cozzare con l'austero approccio piemontese. Addirittura, con tutta una serie di editti, Vittorio Amedeo aveva avviato una dura battaglia contro le manifestazioni di fasto che spesso scadevano nella lussuria e nei diffusi giochi d'azzardo. Tutto ciò fece scalpore e generò crescente malcontento nelle nobili casate palermitane.

Divenne ben presto evidente che tra la dissennata e dissipatrice nobiltà edonista palermitana e quella austera ed efficientista savoiarda esistevano ben poche affinità etiche e culturali.

E così non ci fu sorpresa, se non profonda delusione, che sfociò presto nella palese avversione delle classi più abbienti, nel veder Amedeo di Savoia tornarsene in Piemonte dopo pochi mesi di permanenza nell'isola e nominare un modesto conte savoiardo, Annibale Maffei, a Viceré di Sicilia.

Dal 1713, i Savoia regnarono per soli sette anni in Sicilia e nel 1720 colsero al volo l'occasione di barattare l'isola con gli Asburgo d'Austria scambiandola con la più malleabile, austera e vicina (al Piemonte) isola di Sardegna.

Ora che vi ho sufficientemente chiarito il contesto storico, continuerò col raccontarvi la storia di Palma e Coppola con gli occhi di Vittorio Maffei, giovane savoiardo, nipote del Viceré.

Questo romanzo, quindi, prende le mosse non solo dal fatto di sangue che coinvolse il Palma e il Coppola nel duomo di Erice ma anche da quella Sicilia del primo 'settecento in cui nuovi regnanti, antichi inquisitori, nobili, affaristi, monaci, suore, negromanti, streghe, alchimisti, popolani e briganti, stavano saggiando i primi afflati di un mondo nuovo, tutto ancora da inventare e tutto ancora da venire.

Questa opera di narrativa prende spunto da avvenimenti storici ma utilizza anche nomi, personaggi, luoghi rielaborati fantasiosamente o totalmente frutto dell'immaginazione dell'autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, è casuale e frutto di sola inventiva narrativa.

Nessuna parte di questa opera può essere riprodotta senza il permesso scritto dell'autore, salvo nei casi permessi dalla legge.